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I martiri del comunismo sul cuore del Leone

By Silvana De Mari
1 Giugno 2025
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La guerra civile spagnola ha insanguinato la Spagna. Il giudizio etico è estremamente semplice: i franchisti erano  cattivi, quelli dall’altra parte erano buoni. La narrazione è talmente ovvia che è scivolata anche nella cinematografia fantastica. Nel film fantasy Il labirinto del Fauno i franchisti sono cattivi, scemi e al limite della psicosi. Le cifre accettate dagli storici assommano un totale di 13 vescovi e circa 4100 sacerdoti, 2 300 appartenenti ad altri ordini e 283 suore, nella stragrande maggioranza uccisi nell’estate del 1936,tra le vittime degli antifranchisti. Spesso furono uccisi anche parenti di sacerdoti. Sacerdoti furono torturati e castrati prima di essere uccisi, seminaristi furono bruciati vivi. I franchisti erano cattivissimi però il Generalissimo Franco ha salvato migliaia di ebrei intrappolati nell’Europa invasa dal nazismo dando ai suoi ambasciatori l’ordine di dichiararli discendenti dagli ebrei spagnoli sefarditi. L’italiano Perlasca a Budapest ne salvò a sua volta spacciandosi per l’ambasciatore spagnolo.  Che gli antifranchisti fossero i buoni e i franchisti i cattivi è una teoria almeno discutibile. Giovanni Formicola parla della guerra civile spagnola ribaltando gli stereotipi nel libro “Difesero la fede, fermarono il comunismo” ed Cantagalli.  Il generale Franco non istaurò un regime democratico, partendo dal presupposto che dopo una guerra civile sarebbe stato impensabile, ma permise l’istaurarsi della democrazia. La democrazia esiste in Spagna non perché gli antifranchisti abbiano vinto una guerra, ma perché Franco lasciò alla Spagna la democrazia. Le guerre finiscono. La guerra civile americana è finita e i morti di entrambe le parti riposano insieme negli stessi cimiteri. La guerra civile spagnola è finita e i morti di entrambe le parti riposavano insieme nella Valle dei Caduti. Il governo spagnolo di Pedro Sanchez ha preso la immonda, barbara e anticristiana decisione di disseppellire i morti franchisti. La chiamano Memoria Democratica e consiste nel cacciare i morti dalle loro tombe e violare un ossario che voleva essere, ed era, una riconciliazione. La memoria democratica non vuole nessuna pacificazione. A questo punto è interessante scoprire che la croce pettorale indossata da Leone XIV l’8 maggio, giorno della sua elezione, quando si è presentato al mondo affacciandosi dalla Loggia Centrale della Basilica di San Pietro, custodiva cinque reliquie “agostiniane”. Tra esse – di sant’Agostino, di sua madre santa Monica, del vescovo san Tommaso da Villanova, del vescovo venerabile Bartolomeo Menochio  e del vescovo spagnolo beato Anselmo Polanco (1881-1939). Agostiniano, già rettore del seminario di Valladolid e provinciale del suo ordine, nel 1935 viene nominato da Pio XI vescovo di Teruel e un paio di mesi dopo riceve l’ordine episcopale. Lo storico britannico Paul Preston – certo non sospetto – lo definisce “religioso pio, austero e conservatore, abituato a distribuire elemosine ai poveri”. Pio, sì, ma anche “bellicoso”, come lo definisce lo storico Hilari Raguer, cioè non incline ad un pacifismo – meglio, a un mitismo, contraffazione della mitezza – di maniera di fronte al dramma storico che viveva la Spagna di quegli anni, capitolo della più ampia e universale guerra tra il bene e il male e della sua manifestazione nel tempo degli uomini con le correlative inimicizie tra le due stirpi, come annunciate dal Genesi (3,15), e come compendiate magistralmente da Plinio Corrêa de Oliveira nel suo Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Il beato vescovo era “bellicoso”, quindi, perché consapevole del fatto che nella sua Spagna erano in gioco, in ultima analisi, il rispetto dei diritti di Dio e la radicale difesa della giustizia e del bene comune, nonché la salvezza spirituale e temporale del gregge che gli era stato affidato. Il che non ammetteva fughe dalla realtà travestite da rifiuto pseudo-evangelico dell’uso legittimo (e perciò doveroso) della forza, anche armata, come confermato da san Giovanni Paolo II a Vienna nel 1983, a proposito dell’omonima battaglia che salvò la città (e forse l’Europa cristiana tutta) dalle orde islamiche.

 

E così, in occasione delle elezioni del febbraio 1936 – che per effetto di violenze e brogli avrebbero portato il Fronte Popolare anarco-socialcomunista al governo, – ammonisce con una missiva interna i suoi parroci del fatto che quella in corso non fosse una normale competizione politica, ma la lotta “tra i sostenitori della religione, della proprietà e della famiglia e i portavoce dell’empietà, del marxismo e dell’amore libero”, e cioè lo scontro “le due città nemiche di cui parla Sant’Agostino: i lati opposti del bene e del male”, impersonati in quello storico momento dal Fronte Nazionale Contro-rivoluzionario e dal Fronte Popolare. Neanche due settimane dopo l’Alzamiento Nacional, con una lettera pastorale, elogia la “rivolta del nostro glorioso Esercito Nazionale per la salvezza della Spagna”. Nel marzo del 1937, scrive un’altra lettera pastorale, in cui si legge che «orde marxiste sono impegnate in tutti i tipi di abusi e crimini, essendo persone e cose sacre l’obiettivo principale della loro ira. […] L’odio satanico di atei rivoluzionari in tutto il mondo ha seminato la desolazione accumulando macerie e rovine». E non si limita alle parole, ma sostiene fattivamente la guerriglia contro-rivoluzionaria nelle zone controllate dai rojos. Allorché Teruel è assediata da quelle orde, resiste a chi gli consiglia di rifugiarsi dove è solido il controllo da parte dei nacionales, affermando che “Finché resta anche solo un’anima della mia diocesi, io resto”. Poi, nel dicembre del 1938, l’ultima offensiva dell’esercito repubblicano sfonda, e gran parte di Teruel viene invasa da regolari e miliziani. Il vescovo non lascia la città, ma si rifugia nel monastero di Santa Clara perché l’episcopio è bombardato. Lì, dopo qualche settimana, viene arrestato, trasferito a Valencia, dove viene “processato” e invitato a ritrattare la lettera collettiva dell’episcopato di Spagna del primo luglio 1937, che definiva cruzada l’Alzamiento Nacional e da lui ovviamente sottoscritta. Risponde “Avremmo dovuto scriverla il giorno prima”. E naturalmente – secondo lo stile dei rojos, dopo essere stato trasferito a Barcellona, nell’imminenza della liberazione della capitale catalana, il 7 febbraio 1939, viene prelevato da miliziani e soldati dell’esercito rosso con altre decine di prigionieri, tra i quali il suo vicario generale, che subiranno la stessa sorte, e condotto fuori città sul canale asciutto d’un fiume, dove viene ucciso con il classico colpo alla nuca comunista, e al suo cadavere, come a quelli degli altri assassinati, viene dato fuoco. Un crimine particolarmente barbaro e odioso, perché ormai la guerra era persa, e perciò non trova spiegazione, giammai giustificazione, nel calore e nelle passioni dell’inizio dell’insorgenza, ovvero nell’intenzione di impaurire il nemico e privarlo delle sue guide spirituali. Un’infame vendetta da parte degli sconfitti, frustrati dal fatto che quella volta la storia non era stata dalla loro parte. L’1ottobre 1995, il vescovo Polanco – il dodicesimo martirizzato dai rivoluzionari rossi d’ogni risma in Spagna tra il 1936 il 1939 -, insieme con altri 46 testimoni della fede nella mattanza spagnola, è stato beatificato da san Giovanni Paolo II, in quanto ucciso in odium fidei.  La presenza di questa reliquia nella croce papale ci fa sapere che le vittime del comunismo sono nel cuore della Chiesa.

 

 

TagsAnselmo Polancogiovanni formicola
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Silvana De Mari

Nell’ora dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario. (G. Orwell)

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