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Per distruggere la libertà di un popolo

By Silvana De Mari
1 Febbraio 2018
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libertà di un popolo silvana de mari communityIl primo passo per distruggere la libertà di un popolo è distruggerne l’identità.

Per abbattere un albero, tagliare le radici. Occorre ridicolizzare la religione di quel popolo, con uno stillicidio continuo di minuscoli gnomi, sedicenti intellettuali, cantanti, presentatori, attori, registi, fotografi, pubblicitari, artisti postmoderni, eccetera con uno stillicidio continuo di odio e sarcasmo.

La storia di quella religione e la storia di quel popolo viene ridotta ai suoi episodi peggiori, ovviamente enfatizzati e i fiumi di gloria cancellati. Questa Europa ogni istante più ridicola nega il cristianesimo e si apre all’islam più radicale, di cui cela le nefandezza.

La generazione Bataclan colora i marciapiedi con i gessetti e canta Imagine, Al piano terra del Bataclan i morti sono stati ammazzati in maniera sobria, al primo piano invece non hanno avuto questa fortuna. Non lo sapevate, vero? Per evitare la xenofobia ce l’hanno celato. Loro sono saggi e noi dobbiamo restare buoni. La nostra storia è infangata, ridotta al suo peggio, perché la generazione fiocco di neve, l’ultima, possa credere che è meglio vergognarsi della propria storia.

Per abbattere un albero occorre sradicarlo. Dopo aver abbattuto la sua religione e infangato la sua storia, occorre recidere il legame con la terra. La terra non deve più essere coltivata: le quote latte hanno ammazzato le nostre vacche, buttiamo le arance perché quelle straniere costano meno, il 60% dei nostri pelati è made in cina, gli agricoltori si suicidano. La terra non deve essere più amata.

Churchill ha fermato Hitler per l’Inghilterra, De Gaulle per la Francia. Ora il legame deve essere spezzato. Erasmus, scambi culturali, il mito del migrante come elemento positivo, (mentre l’elemento positivo è chi resta a combattere per la propria terra e a farla fiorire), servono a creare l’apolide, lo sradicato, il fiocchetto di neve che non combatterà mai per nulla.

L’annientamento dell’identità territoriale, dell’identità storica e dell’identità religiosa sono venduti come apertura al mondo, in realtà servono a creare un’umanità intercambiabile, incapace di combattere, manipolabile, un mondo di consumatori che riempiranno con lo smartphone e la cannabis legale la lunga fila di giorni che li separa dalla tomba.

Quanto un popolo è in ginocchio lo si deduce dal tasso i natalità basso e dal tasso di suicidio alto. Ritorniamo alla terra.

Noi siamo noi, noi siamo la nostra storia, noi siamo la nostra fede. Noi siamo noi, e questo non vuol dire che siamo migliori degli altri, esattamente come amare la propria famiglia ed esserne fieri non vuol dire voler schiacciare gli altri, ma noi siamo noi. Ogni popolo ha diritto alla sua storia, alla sua religione e alla sua terra. Questo vale anche per noi.

Un’etica ribaltata spiega che uccidere un figlio nel proprio ventre è un gesto etico e che la xenofobia è un crimine.

Xenofobia vuol dire paura dello straniero. E’ una paura normale e fisiologica. All’interno del gruppo ci sono linee di affettività dovute a una storia comune, una lingua comune che permette anche di percepire eventuali aggressioni in tempo, regole di non aggressione che tutti rispettano. Lo straniero non condivide nulla di questo.

Non è detto che , a prescindere, sarebbe un pericolo, ma è innegabile che ci sono probabilità che lo sia.

Se si introduce un elemento estraneo in un canile o in un pollaio, scatta l’aggressione nei suoi confronti: la diffidenza per l’estraneo è sulla parte arcaica del cervello, perché una emozione di difesa. Senza quella paura non saremmo migliori, saremmo morti.

Chi non difende il proprio territorio e le proprie risorse non è buono, è antropologicamente perdente, etologicamente perdente. La generosità è doverosa, ma solo in regime di sicurezza. Una sicurezza totale. Nessun governo può rischiare la sicurezza dei suoi cittadini, le risorse dei loro figli.

Se un popolo ha paura dello straniero, non è un popolo razzista e cattivo, è un popolo dove sono stati introdotti troppi stranieri, troppo estranei, quindi senza possibilità di integrazione, in un momento di crisi economica che rende molto problematico stornare denaro per darlo ad altri.

Se qualcuno ha paura va rassicurato, non insultato. Se lo si insulta è perché si sa che nessuna rassicurazione è possibile.

Noi abbiamo diritto di discriminare, vocabolo demonizzato che vuol dire distinguere. Distinguo un immigrato da un invasore. Duecentomila maschi islamici che vengono soli, senza donne , in fuga da nulla, nessuna guerra in Senegal, nessuna guerra in Costa d’Avorio, che dobbiamo mantenere perché sono venuti e quindi è nostro compito mantenerli, sono un esercito di invasione.

Sono un tassello dell’islamizzazione dell’Europa. Ci sono religioni che non sono compatibili, che non sono integrabili. I gruppi che non lavorano non si assimilano mai. Mai.

Quando ci fu l’attentato nella metropolitana di Londra, mio figlio era a Londra. Io ero terrorizzata. Ero in un centro commerciale davanti a televisori che trasmettevano le scene, e un gruppo di uomini nordafricani rideva felice davanti a quelle scene.

Non voglio sulla mia terra chi ride della morte dei nostri figli. Non voglio girare per i mercatini di Natale difesi dal cemento perché un tizio raccolto in mare a nostre spese e mantenuto a nostre spese decide di schiacciarci come scarafaggi.

Gli immigrati islamici stanno in ghetti. Questi ghetti cosa li provoca? C’è una legge che vieta agli islamici di vivere al di fuori dei ghetti? Perché stanno in ghetti? Cosa intende per ghetti? I quartieri di case popolari date dallo stato.

Il 70% degli islamici in Europa vive in case popolari perché non ha reddito o ha reddito minimo: segno di un’integrazione troppo difficile se non impossibile. Se il loro numero fosse più basso e non avessimo più lavoro, come era negli anni 70 e 80 l’integrazione sarebbe possibile.

I quartieri islamici, come la città di Maslo in Svezia diventano zone non frequentabili, dove le ambulanze devono entrare scortate dalla polizia, zone da cui gli ebrei devono scappare per sottrarsi all’antisemitismo islamico e dove gli indigeni o autoctoni non possono girare alla sera.

Cosa prova un autoctono o indigeno, un europeo di origine europea a vivere in un quartiere popolare a maggioranza islamica? Cosa si prova a essere l’unica famiglia che si chiama con un cognome francese in un condominio interamente di immigrati islamici?

Quando ci furono le periferie in fiamme erano impressionanti le scene dei ragazzi delle periferie arrestati e portati nei pronto soccorsi che sputavano addosso ai medici che cercavano di curarli. Un immigrazionismo sbagliato crea odio, xenofobia, disordini, rende la vita un inferno nei quartieri dell’immigrazione.

L’immigrazione è possibile in piccoli gruppi dove ci sia lavoro in abbondanza, altrimenti crea guerra civile. Non è vero che le società multiculturali siano più aperte e belle: questo è possibile solo dove spazi e lavoro siano abbondanti e dove le differenze tra le varie culture non siano eccessive.

Come giustamente sostiene la professoressa Anna Bono di cui raccomando il libro, non tutte le società sono integrabili. La xenofobia è la conseguenza di un immigrazionismo sbagliato, è una azione di difesa davanti alla corretta percezione di un pericolo mortale: la libanizzazione, il razzismo non c’entra nulla con la paura dello straniero che potrebbe anche essere un invasore.

Il razzismo c’entra ancora meno con la paura dello straniero correttamente riconosciuto come invasore.

Nel momento in cui temo una libanizzazione, o, meglio, capisco che mi stanno sottoponendo a una libanizzazione, non esercito alcun disprezzo per le persone che lo stanno facendo, mi rendo conto che stanno mettendo in atto una strategia vincente dove lo sconfitto sono io.

Quando riguardo le partite Farcia Marocco e Francia Algeria giocate su suolo francese, con i cittadini francesi di origine araba che fischiano la marsigliese, non nutro nessun disprezzo per questi cittadini, prendo atto che non si considerano francesi.

Quando sui siti in italiano leggo i segni di gioia, i cuoricini se su FB nelle scene di terrorismo, prendo atto che sul nostro territorio ci sono persone che hanno linee di affiliazioni al gruppo opposte alle nostre.

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Silvana De Mari

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