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Il velo e la libertà che muore

By Silvana De Mari
26 Giugno 2025
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A Birmingham in una scuola un Iman ha tenuto un sermone, sulla corretta tecnica della lapidazione: la donna deve essere sepolta fino alla vita per preservarne il pudor e poi lapidata. come si arriva fino qui? con la ibertà del velo. In una società dove, con la solo eccezione del non vaccinarsi, ogni giorno si grida sulle libertà più totali, sulla scelta anche del proprio sesso, anzi genere, sull’autodeterminazione dei propri pronomi, ci ritroviamo a tollerare, o peggio, a sorridere pieni di compimento multietnico, davanti al simbolo più evidente della sottomissione: il velo islamico. Abbiamo anche imparato a distinguere hijab, niqab, e burqa, anche i giornali femminili nel loro implacabile disservizio logico spiegano i diversi nomi, aspettiamo il prossimo calendario contro il patriarcato con natiche in mostra e teste nascoste. È la bandiera dell’ideologia  che afferma che la donna è tentazione, è pericolo, è proprietà dell’uomo, che il corpo femminile è un problema da coprire, da nascondere, da cancellare. E quando il corpo è cancellato, anche l’anima si acquatta. “Il velo è la mia identità, lo porto perché dopo una ricerca interiore non posso più farne a meno”, squittiscono le paladine in occidente, secondo un copione sempre uguale e sempre senza senso perché non vuol dire niente, ma davanti alle  parole identità e ricerca interiore chi avrà il coraggio di dire che sono pericolosissime, farneticanti idiozie che condannano a morte altre donne in altri luoghi? La parola identità e la parola scelta bloccano qualsiasi critica. Le parole scelta e identità avrebbero senso se in nessun posto condanne penali di detenzione, fustigazione e morte imponessero il velo. La cuffietta bianca e l’abito lungo delle donne Amish sono identità e scelta, i riccioli laterali e gli abiti neri cappello di pelliccia incluso ( come vestiva il fondatore della setta in Polonia nel ‘600) che gli ebrei Haredhim portano anche nelle infuocate estati di Gerusalemme sono una scelta e un segno di identità. Se qualcuno abbandona questi abiti non incorre in pene legali. Dato che pene e anche feroci, inclusa lapidazione e impiccagione proteggono il velo, tutte le donne che lo portano, dalla signora Boldrini alle fanciulle che squittiscono sull’identità, devono essere considerate collaborazioniste di un potere ignobile e spietato. Il velo è osceno, “riduce ogni donna ad una vagina, un organo sessuale”, (Azar Nafisi, Leggere Lolita a Theran). Ogni donna con il velo è una donna che ha rinunciato alla sua umanità per diventare un organo sessuale: gli organi sessuali sono giustamente pudenda, in latino, neutro plurale, parti di cui ci si vergogna e che vanno coperte, come ci spiega Charlott Djavanne (Giù i veli), come ci spiega Hirsi Alì ( Non sottomessa). I paladini e le paladine della guerra al patriarcato si inginocchiano, anzi strisciano, inventandosi che il velo è libertà. A scuola le stesse insegnanti che non tollerano i crocefissi fibrillano di tolleranza e inclusione accettando anche la cancellazione della faccia del velo integrale. Ormai sono le stesse insegnanti che guardano con perplessità e velata disapprovazione la ragazzina islamica in jeans e maglietta: si è banalmente occidentalizzata, non permette a loro di mostrare fino a che punto sono tolleranti e inclusive. Gli alfieri dell’Occidente liberale si inginocchiano: non si limitano a tollerare il velo, in realtà lo amano, mentre il velo non è una moda, non è folklore, non è spiritualità. È un’imposizione che le donne la schiaccia, la chiude, la cancella. La giornalista Cecilia Sala, imprigionata in Iran e riscattata dal governo italiana, ha spiegato in un fantastico post che a Teheran si fanno più rave che a Roma, e che in Iran ci sono 3 impiccati al giorno. Una festa quindi rispetto agli anni in cui erano decine, appesi ai semafori delle strade. Secondo Cecilia Sala ci sono centinaia di migliaia le donne che non portano il velo. Centinaia di migliaia? Sicuramente, all’interno dei palazzi della ricca borghesia dove si fanno i rave. All’infuori di quelle mura le punizioni sono draconiane, dalla frusta , all’accecamento, a volte anche la morte e sicuramente lo stupro. Una donna iraniana ha fatto sentire la sua voce. “Il mio nome è Bahareh Maghami, ho 28 anni. Ero un’insegnante di prima elementare. Quando sono stata arrestata stavo ritornando, con mio fratello, dalla Moschea di Ghoba. Mi hanno picchiata e mi hanno portata via. Erano in tre quelli che mi hanno stuprata.

Erano sporchi e dicevano sconcerie. Anche se hanno visto che ero vergine mi hanno chiamato puttana e mi hanno obbligata a dichiararmi tale. Quando mio padre scoprì quello che mi avevano fatto il suo dolore fu immenso e in lui tutto si frantumò. Mia madre invecchiò di cento anni in un’unica notte, mio fratello da quel momento non è riuscito più a guardarmi negli occhi. I parenti, gli amici, i vicini, tutti ci lasciarono soli. Siamo stati costretti a vendere la nostra casa e ci siamo trasferiti a Karaj, un sobborgo di Teheran. Ma neanche lì la nostra permanenza durò a lungo. Loro trovarono il nostro nuovo indirizzo e ricominciarono a schernirci. Per la Repubblica Islamica d’Iran sono diventata il simbolo della donna con la schiena rotta, i capelli tagliati e il viso insanguinato. Ma io sono orgogliosa di essere una puttana se ciò aiuta a portare la libertà! Ora che ho lasciato l’Iran voglio condividere, anche solo per una volta, il dolore con qualcuno.”Lei ha fatto sentire a sua voce e l’occidente porta la bandiera del governo che ha distrutto la sua vita ai Pride e nelle scuole.
Il velo è il cavallo di Troia dell’islamizzazione dell’occidente, dichiarata serenamente come lo scopo della presenza islamica in Europa: le donne saranno sostituite da ombre. Le giulive fanciulle dell’associazione “Non una di meno”, saranno le prime, sicuramente arruolate nella polizia morale, la polizia che controlla il velo, come quella iraniana. Chahdortt Djavann, nel suo Giù i veli! racconta la propria esperienza: «Da tredici a ventitré anni, sono stata repressa, condannata a essere una musulmana, una sottomessa e imprigionata sotto il nero del velo…Era il velo o la morte, so di cosa parlo»

 

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Silvana De Mari

Nell’ora dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario. (G. Orwell)

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